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Pareto, Vilfredo.

Economista e sociologo italiano. Laureatosi in Ingegneria al Politecnico di Torino (1869), lavorò poi in imprese minerarie e ferroviarie, sino a diventare direttore generale delle ferrovie italiane. Posto dalla sua stessa attività di fronte ai problemi fondamentali della politica economica, mise in discussione l'orientamento protezionista, in quanto apportatore di vantaggi solo per una ristretta oligarchia economica, aderendo invece ai principi della dottrina libero-scambista. La sua breve esperienza nella politica attiva gli fece maturare un giudizio quanto mai negativo verso i politici, che vide animati solo da ambizioni personali e interessi particolari. Dal 1889 cominciò a interessarsi alla ricerca pura in cui trovò il rigore e la logica che non riscontrava nella realtà e alla quale finì col dedicarsi interamente. Lo stimolo a questo cambiamento fu la lettura dei Principi di economia pura di M. Pantaleoni, attraverso il quale risalì a L. Walras. I principi di economia matematica introdotti da quest'ultimo costituirono infatti la base sulla quale P. cominciò a elaborare il proprio sistema teorico. Dal 1890 al 1905 collaborò assiduamente al "Giornale degli economisti" (saggi raccolti in Scritti teorici, 1952). Malvisto dall'ambiente accademico e ufficiale, nel 1893 lasciò l'Italia per subentrare a Walras come titolare della cattedra di Economia politica all'università di Losanna. Nel 1906 abbandonò anche l'insegnamento e si ritirò a Céligny, sul lago di Ginevra, dove si dedicò interamente agli studi. Nel 1922 fu nominato senatore e invitato a rappresentare l'Italia alla Società delle Nazioni per la questione del disarmo, ma le precarie condizioni di salute gli impedirono di accettare l'incarico. Partì da posizioni walrasiane, come testimonia la sua prima opera di un certo spessore, Corso di economia politica (1896-97). Nel Manuale d'economia politica (1906), pur sviluppando ancora in parte il pensiero di Walras, P. ne abbandonò la teoria sul valore, cui sostituì una propria costruzione teorica basata sulle curve d'indifferenza elaborate da F. Edgeworth, approdando a concezioni originali e innovatrici. Nel Corso di economia politica P. affrontò il problema della libera concorrenza, considerata come apportatrice di benessere sociale. La teoria dello scambio tra merci intercomunicanti originò da posizioni che P. aveva sostenuto sin dal 1894-95, precedendo di decenni le moderne concezioni, secondo cui la teoria del commercio internazionale e quella della produzione delle merci e dei capitali hanno una stessa origine: derivano, cioè, "dalle condizioni dell'equilibrio economico". Partendo dalla considerazione di due mercati intercomunicanti, P. costruì uno schema di equilibrio economico generale in cui erano rappresentate tutte le fasi del ciclo economico: produzione, scambio, consumo, capitalizzazione. Avvicinandosi allo studio dell'economia con gli stessi strumenti logici impiegati dalle scienze naturali, in particolare dalla meccanica razionale, P. formulò nel Corso di economia politica il principio di ofelimità, cioè "quel rapporto di convenienza, che fa sì che una cosa soddisfi un bisogno o un desiderio, legittimo o meno". Il perseguimento del massimo di ofelimità da parte dell'individuo (inteso in senso astratto) rappresenta la condizione affinché anche la collettività, attraverso il meccanismo della libera concorrenza, possa raggiungere il massimo di ofelimità generale. Per P. l'equilibrio dell'aggregato sociale viene quindi raggiunto attraverso il movimento delle singole parti che lo compongono. Il Corso di economia politica contiene la prima elaborazione della legge dei redditi, secondo la quale la curva della distribuzione della ricchezza, determinabile in base ai dati statistici, varia assai poco da un'epoca all'altra (invarianza della curva dei redditi), dimostrando il carattere permanente dell'ineguaglianza. Sebbene tale legge non sia stata confermata empiricamente, riveste ugualmente grande importanza sotto l'aspetto metodologico. Se il Corso di economia politica non si discosta ancora molto dallo schema tradizionale, opera assai più originale è il Manuale d'economia politica. Qui egli giunse alla conclusione che, date le risorse produttive, le preferenze dei consumatori, la tecnologia e la distribuzione delle risorse, non esiste un'allocazione (cioè una distribuzione tra gli individui dei beni di consumo e delle risorse) che possa aumentare l'utilità di un individuo senza diminuire quella di un altro. Tale definizione, detta ottimo paretiano, è divenuta fondamentale per gli sviluppi successivi della teoria del benessere. Nella stessa opera, P. ipotizza tre tipi di individui: coloro che trasformano quantità più o meno grandi di beni proponendosi unicamente di soddisfare i propri gusti, senza tendere a modificare le condizioni di mercato; coloro che cercano di modificare dette condizioni per avvantaggiarsene; coloro che vogliono "organizzare tutto l'insieme del fenomeno economico in modo da procurare il massimo benessere a tutti coloro che vi partecipano". Secondo P. gli individui del primo tipo si trovano là dove c'è concorrenza, quelli del secondo tipo dove c'è monopolio (questa suddivisione equivale quindi a una definizione di due tipi di mercato); il terzo è invece l'individuo rappresentativo dell'organizzazione sociale. Considerata la realtà economica come un equilibrio in perpetuo divenire per il gioco di forze esterne e interne, poiché i fenomeni economici non possono essere separati dai fenomeni politici e sociali, la dinamica economica sbocca nella sociologia. Nel Trattato di sociologia generale (1916) P. costruì allora la sua teoria sociologica, che ebbe grande risonanza internazionale; in particolare, la sua teoria della circolazione delle élites suscitò molto interesse negli Stati Uniti nel decennio 1930-40. Secondo P. "ciò che si chiama piramide sociale è, in realtà, una specie di trottola... I ricchi ne occupano la sommità, i poveri sono alla base", e poiché un sistema di distribuzione analogo si ha nell'ambito politico, il risultato è che "nella maggior parte delle società, saranno, almeno in parte, gli stessi uomini a occupare lo stesso posto in tale figura e in quella della distribuzione della ricchezza. Le classi dette superiori sono generalmente anche le più ricche". Più tardi fece cadere l'identificazione tra classe politica e classe economica, sulla base della constatazione che, per quanto in un sistema di proprietà privata i ceti più ricchi risultino i più influenti anche sul piano politico, essi preferiscono in genere esercitare la loro influenza non direttamente, ma attraverso uomini di governo espressi da ceti economicamente più modesti. Da queste premesse egli giunse a considerare la storia come una circolazione di élite, di aristocrazie che si alternano continuamente in un andamento ciclico. Secondo P., dato che le molecole che compongono l'aggregato sociale si muovono come quelle di un organismo animale, le élite tendono a decadere, esaurendosi biologicamente, dando luogo a un continuo ricambio. La circolazione delle élite avviene però così lentamente che si percepisce solo prendendo come base di osservazione un periodo addirittura plurisecolare. Essa si svolge secondo questo schema: A (élite al potere), B (élite all'opposizione che cerca di scalzare la prima), C (maggioranza della popolazione, incapace di condurre una lotta autonoma e quindi in grado di assumere un ruolo di primo piano nei processi storici solo sotto la guida di A e di B). Quasi sempre è B che guida C alla rivolta lusingandola con promesse (ma non di rado, A cerca di superare B con promesse più verbali che sostanziali). Quando B riesce a impadronirsi del potere segue un periodo di tranquillità essendo C rimasta senza capi, finché non si formerà una nuova élite, D, che svolgerà lo stesso ruolo di B contro A. Pertanto, secondo P., si tratta sempre di una lotta tra élite concorrenti, ossia di un fenomeno di successione di una minoranza a un'altra, essendo la maggioranza incapace di governarsi da sé (Parigi 1848 - Céligny, Ginevra 1923).